Quando scelgo l’argomento della newsletter, di norma mi baso su suggestioni avute durante la settimana: spezzoni di discorsi tra amici, riflessioni che ho letto, immagini che ho visto, input inconsci.
Qualche giorno fa, per l’anniversario della morte di Michela Murgia, mi è capitato sotto gli occhi un frammento della sua celebre intervista per Vanity Fair (vi consiglio di recuperarla e di guardarvela per intero se non l’avete ancora fatto - sia se siate o meno d’accordo con i suoi insegnamenti). Vestita di rosso e bellissima (lo era, non me ne vogliate, ma l’ho sempre pensato) diceva che riconoscere la felicità è una forma di intelligenza.
Siamo stati abituati a pensare che la felicità è una spinta dall’esterno, un accadimento al momento giusto, un destino che si realizza, un allineamento di pianeti, insomma qualcosa che arriva da fuori per sorreggere e medicare il dentro, un fattore estraneo. Credo invece che la felicità sia un esercizio interiore, un allenamento costante, una ricerca attiva. Si può essere felici per pochi istanti o per lunghi minuti, ma quella non è felicità, è entusiasmo, pienezza di intenti, euforia, estasi, un soverchiamento della norma. La felicità a cui mi riferisco io invece è una felicità razionale, ragionata, costruita: la strada non si trova, spesso appunto si costruisce. La felicità a cui sono interessata è un moto attivo, non passivo, la innesco io come soggetto, non la subisco in quanto oggetto. Per questo sono d’accordo con la Murgia quando dice che è un esercizio di intelligenza. Intelligere significa scegliere tra qualcosa, compiere una pesca, cogliere i frutti della terra, agire. E quindi “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” Esattamente come diceva Calvino, bisogna predisporsi a saper riconoscere il buono e il bello che ci circonda, e non solo osservarlo, ma impegnarsi per farlo durare, accertarsi che esso viva e non si esaurisca.
Chi ci trasmette un senso di pienezza, non sono necessariamente quelle persone che hanno soldi, case e fanno viaggi incredibili; che realizzano progetti sociali conformi alla norma, sposandosi e facendo figli. Non esiste una via, esistono tante strade, tanti scenari. Sarebbe ipocrita non constatare tuttavia che la disponibilità economica e un certo grado di fortuna possano aiutare a sentirsi pieni e felici, ma il vero esercizio, quello faticoso, quello che spesso decidiamo di non affrontare, è la spinta a innescare il buono in ciò che abbiamo, ad esaltare e coccolare l’esistenza delle cose e non la loro assenza. Dal contesto diverso per ognuno esercitare l’osservazione del bello, del buono, e scavalcare il cattivo, il brutto. Anzi, affrontare il cattivo e il brutto nell’ottica di un cambiamento di rotta (se siamo in grado di intervenire) o di una disposizione degli elementi nella giusta prospettiva. Se ho a disposizione il blu e il giallo, farò un bel quadro con questi due colori, non lascerò la tela vuota per la mancanza di rosso. Non mi ossessionerò sul rosso, su quante cose incredibili avrei fatto con questo colore, su quanto la mia tela sarebbe stata migliore, ma sfrutterò il giallo e il blu per realizzare ciò che di meglio sono in grado di fare con questi due colori, spingerò il blu e il giallo verso sfumature inaudite, creerò un bellissimo verde, offrirò alla mia tela infinite possibilità di bellezza - la metafora è infantile, lo so, ma efficace, semplice, pulita.
Si può essere sempre felici? No e sì. No, quando per felicità si intende quello stato d’animo sgombro di macchie. Sì, quando per felicità si intende una predisposizione d’animo. Si può essere felici durante una depressione grave o durante una malattia debilitante, si può essere felici in punto di morte o quando siamo straziati da un lutto. Si può insomma cambiare il nostro sguardo sulle cose e sul mondo e questo atto di fede può avvenire solo se consideriamo la vita come un dono, come una condizione temporanea e unica, come una vincita in partenza. Sprecarla nel tentativo di essere o fare qualcosa che non ci appartiene, significa rinnegare un dono, darlo per scontato, respirare per abitudine, accorgersi del miracolo solo quando ci sta per essere revocato.
Quante volte sentiamo dire che una malattia riaccende il senso per il bello? Non possiamo aspettare o addirittura sperare di vivere una tragedia per cambiare prospettiva. La felicità è ora, è qui, è a portata di mano. Se domani non ci saremo più, avremo vissuto l’oggi.
Mi rendo conto che questo mio pensiero sta toccando picchi di filosofismo da due soldi, insegnamenti spiccioli sul bello della vita non sono da me, non ho nessun interesse a diventare una santona, una guru o la nuova messia. Sono consapevole che tra il dire e il fare ci sono di mezzo le acque torbide e vive dell’esistenza, con le brutture e i traumi, gli inciampi e i dubbi. Sono regina di inciampi e paladina del trauma: vivo - e ho vissuto - spaventata. Non rinnegherei mai tutto questo e non lo vorrei mai alimentare di retorica vana e ridicola. Tuttavia credo sia ormai sottovalutato guardare le stelle in una notte buia e accorgersi di essere infinitesimali, osservare il creato e accorgersi di avere infinite risorse di bellezza a portata di zampa, mi sembrerebbe uno spreco non tentare, non impegnarsi, lasciarsi andare e poi sprofondare, senza averci nemmeno provato a raccattare un po’ di magia vivifica.
Essere felici è una scelta.
Non si decide di essere felici tappandosi gli occhi, ma tenendoli bene aperti, vedendo tutto, operando distinzioni, costruendo.
Grazie per avermi letto anche oggi. Scrivo la newsletter quasi di getto (nel senso che cerco di limitare la mia tangente), ma se divento troppo astratta o poco interessante, ditemelo sempre. Se mi volete rispondere o commentare in privato, come qualcuno di voi ha già fatto, io sono sempre qui ad accogliere ogni frammento.
A presto.
Francesca